Il giorno 26 gennaio 2008, in occasione della quinta lezione del Laboratorio di formazione sociale CittadinanzAttiva, organizzato dal Centro Studi Sociali Bachelet ONLUS, è intervenuto, sul tema “Partecipare alla Comunità. Responsabilità personale e percorsi istituzionali: profili etico-sociali”, il prof. Giuseppe Acocella, ordinario di etica sociale all’Università Federico II di Napoli e Vice Presidente del CNEL di Roma.
Il prof. Acocella analizza due temi di particolare importanza: la partecipazione e la sua accezione etico-sociale; la democrazia e la funzione che assume la rappresentanza, partendo dal significato di partecipazione responsabile alla vita della comunità e di rappresentanza generale e politica in relazione agli obiettivi della democrazia. Questo secondo tema, afferma il prof. Acocella, è sempre più all’attenzione dell’intera nazione, in quanto si avverte, anche nei livelli istituzionali, uno sfilacciamento della relazione tra istituzioni e cittadini, tra politica e cittadini.
Limitandosi a fornire gli assi essenziali del discorso, il prof. Acocella sottolinea che il concetto di “responsabilità” introduce una specificazione ad una categoria che sembra scontata per il nostro tempo. Più precisamente, nessuno potrebbe pensare, al giorno d’oggi, ad una legittimità di forme di convivenza, di coesistenza civile che non siano connotate dalla democrazia, cioè dalla possibilità data a tutti i cittadini, indistintamente, di partecipare alla vita comune. Il tema della partecipazione responsabile alla vita della comunità è già rintracciabile nel testo del pensiero democratico che è la Democrazia in America di Tocqueville, in cui viene dichiarato con molta franchezza che la democrazia può affermarsi soltanto consolidando la sua superiorità morale. Non c’è possibilità di democrazia se essa non è moralmente superiore ad ogni altra forma di convivenza. I critici della democrazia, al contrario, sostengono che è faticoso vivere in una democrazia, in quanto tutti vogliono dire la loro. Meglio uno che comanda per tutti, sperando che sia uno gentile, buono e che il suo comando sia paterno, come ripreso dalla filosofia politica inglese. Quanto più bello sarebbe se un illuminato desse le risposte giuste. Il problema è che per trovarle giuste bisogna verificarle, cioè bisogna che ci sia una partecipazione collettiva.
Tale presupposto è stato confermato nel 900, periodo in cui le vicende dei totalitarismi, che sono da considerarsi l’infrazione della democrazia, hanno costituito una tragedia per la vita delle nazioni, quindi, è apparso quasi obbligato ritenere che la democrazia manifesti una superiorità morale. Basti pensare al movimento che ha portato alle costituzioni europee più significative, che hanno permesso di vivere in libertà. Partecipare della democrazia presuppone un senso di responsabilità. La superiorità morale della democrazia sta nel fatto che ognuno di noi, occupandosi del bene comune, accantoni i propri interessi particolari, soffochi il proprio egoismo.
Questo tema è un compimento di un percorso che ha avuto nella famosa dicotomia rousseauviana il suo apice. La distinzione che Rousseau fa tra la volontà di tutti e la volontà generale è decisiva. Quando si parla di democrazia e del principio di maggioranza, non si sta parlando di un fatto meramente quantitativo e numerico, perché dice Rousseau: la volontà generale, che può essere anche manifestata da un singolo, si distingue dalla volontà di tutti perché ha in sé un elemento di eticità; la volontà di tutti può essere, invece, anche la somma di interessi particolari che alla lunga fanno il male della comunità perché sono semplicemente l’esaltazione dell’egoismo particolare ed individuale. E’ evidente, pertanto, come la democrazia presenti al suo interno un dilemma: se è vero che non esiste altro criterio democratico che la maggioranza, altrimenti si sfocerebbe nel dispotismo illuminato, cioè nella pretesa che uno ragioni, decida e abbia ragione per tutti, bisogna far in modo che tale maggioranza non sia un risultato meramente quantitativo ma esprima la superiorità morale della democrazia. Quando si parla di democrazia, si fa riferimento ad un modello di società che è basato sull’eguaglianza, in altri termini sulla non accettazione della violazione delle volontà.
Esiste, tuttavia, un’obiezione alla superiorità morale della democrazia, che è la seguente: la democrazia, i suoi strumenti, la legislazione, il governo della comunità, non devono mirare al bene. L’eticità della politica è qualcosa di diverso dalla ricerca del bene. Questo problema è stato posto in maniera lineare da Max Weber nel suo discorso agli studenti tedeschi del 1919, scritto subito dopo il disastro del primo conflitto mondiale, che ha portato alla costituzione della Repubblica di Weimar e nel quale viene sottolineata la differenza tra l’etica della responsabilità e l’etica della convinzione. Secondo Weber, non è compito della democrazia e della politica cercare il bene, che spetta invece all’etica della convinzione. Se noi giustificassimo il dittatore soltanto perché egli crede di fare bene sarebbe un disastro. Weber evidenzia come l’etica in politica è soprattutto un’etica della responsabilità, che non è meramente consequenzialista, cioè un preoccuparsi di quello che accadrà ma è un farsi carico di tutto e di tutti, del presente e del futuro, è il porre ogni azione in una sfera di eticità in cui non c’è soltanto chi prende la decisione, ma ci sono anche tutti quelli che potrebbero giovarsene o averne svantaggio.
Il rapporto tra giusto e bene è un tema molto dibattuto nell’etica sociale contemporanea. Si pensi ai ragionamenti di Rawls, Taylor, Haddams.
Il problema è che qualunque carattere deliberativo della politica deve far conto con l’uguaglianza. Facendo riferimento a Walzer e ai suoi soggetti parlanti, il prof. Acocella afferma che il livello di comprensione reciproca nel convivere è data dal confronto continuo, grazie al quale si arriva a qualcosa di condiviso che non può essere il bene, ma è qualcosa di giusto che si riesce a raggiungere come regola comune. A questo punto, il prof. Acocella precisa che l’uguaglianza non è quella delle tesi. Claudio Magris, editorialista de Il corriere della sera, dice che il problema del nostro tempo è che si vorrebbe dare la medesima cittadinanza all’errore e all’orrore. Mentre, però, l’errore si può accettare, perché chi commette un errore è disponibile a misurarsi e verificare il proprio errore; l’orrore invece è il porsi come padrone degli altri.
Ciò significa che l’uguaglianza che dobbiamo sostenere è quella dei partecipanti e non di ciò che affermano. Tutti i partecipanti alla comunità hanno la stessa dignità ma non è eguale quello che dicono, perché alcune cose potrebbero essere positive ed altre negative.
Tocqueville in una lettera del gennaio del 1835 a Louis de Kergolay scrive: <<non riesco a credere che Dio abbia spinto, ormai da molti secoli, due o trecento milioni di uomini verso l’eguaglianza delle condizioni, per farli ritrovare nel dispotismo di Tiberio o di Claudio>> In altri termini, per Tocqueville, Tiberio e Claudio sono possibili quando la malvagità delle condizioni storiche imponeva la disuguaglianza, ma adesso che Dio ci ha fatto marciare verso l’eguaglianza, è impossibile credere che si possa tornare al dispotismo. Tocqueville, pur non potendo immaginare che ci sarebbe stato un accanimento dell’uomo contro l’uomo nel 900, già nel 1835 ritiene che le condizioni dell’uguaglianza avrebbero dovuto cacciare questi fantasmi. Mette in guardia dal fatto che tutte le posizioni anche le più aberranti possono essere accettate dal teatro della politica, tanto è vero che nel capitolo settimo del libro II della Democrazia in America, Tocqueville scrive: <<è nell’essenza stessa dei governi democratici che il dominio della maggioranza sia assoluto, poiché fuori della maggioranza nelle democrazie non vi è nulla che possa resistere>>, <<la superiore saggezza del numero deve rendere il principio della maggioranza un impero morale>>, <<la democrazia cova in sé il più terribile dei dispotismi: la tirannide della maggioranza>>
Qual è il criterio per salvare la democrazia, che quando abbandona la scelta morale non vale più, ma vale quanto un dispotismo?
Per non cadere in questa tirannide, che viene esercitata più subdolamente attraverso le procedure democratiche, bisogna ancorare le decisioni della maggioranza ai fondamenti etici ispiratori delle decisioni. Scrive Tocqueville: <<Quando dunque io rifiuto di obbedire ad una legge ingiusta, non nego affatto alla maggioranza il diritto di comandare: soltanto mi appello non più alla sovranità del popolo ma a quella del genere umano>>.
Nei moderni assetti costituzionali, il principio di salvaguardia per impedire il libero arbitrio è il controllo di costituzionalità affidato alla Corte Costituzionale.
Passando alla seconda parte del suo intervento, il prof. Acocella riprende la lettera del 21 febbraio 1835 che Tocqueville scrive a Eugène Stoffels: “A coloro che si sono fatti una democrazia ideale, come sogno brillante che credono di poter facilmente realizzare ho inteso mostrare che avevano rivestito il quadro di falsi colori. E che il governo democratico da essi preconizzato, pur procurando dei beni reali agli uomini che possono sopportarlo, non ha i tratti elevati che la loro immaginazione gli attribuisce. Che del resto questo governo non può sostenersi se non a certe condizioni di lumi, di moralità privata, e di credenze, che noi non abbiamo affatto, e che bisogna invece contribuire a creare prima di trarne le conseguenze politiche>>. Non c’è democrazia che non affondi le sue radici nel fondamento etico. Il Presidente della Repubblica Napolitano in un discorso relativo all’autorità giudiziaria ha parlato di patriottismo costituzionale, fortemente etico perchè radicato nella comune convinzione di un patto originario, cioè di regole di principio per cui la democrazia si esprime attraverso il principio di maggioranza che deve rispondere ad un quadro etico verificato di volta in volta dalla Costituzione. La maggioranza non è di per sé portatrice di bene, ma deve in un certo momento storico saper individuare il fondamento etico della propria convivenza.
A questo punto, il prof. Acocella introduce il tema della responsabilità personale.
Partendo dalla domanda: Che cosa differenzia l’etica dal diritto che la politica produce?, precisa che l’etica si differenzia dalla politica perché le posizioni politiche che si auspicano sono negoziabili e comunicabili, mentre l’etica che dà fondamento a questo è comunicabile ma non è negoziabile.
Quando diritto e politica arrivano al cuore della decisione, al margine dove si deve scegliere la natura da attribuire alla deliberazione prescelta, si rischia di registrare un vuoto incolmabile; per chi voglia distinguere la democrazia da altri regimi, il tema della superiorità morale della democrazia è insuperabile.
John Rawls dice: stendiamo un velo di ignoranza sulle nostre qualità particolari, facciamo come se stessimo discutendo senza avere interessi. Il problema è che a quel tavolo ci sono soltanto quelli che ci sono, ma non ci sono quelli che non ci sono, che non essendoci non hanno voce; invece qualcuno deve essere voce di chi non ha voce. Questo è l’elemento etico forte che dovrebbe differenziare le democrazie. Non a caso Pareto diceva che il mito del suffragio universale è un inganno.
Avviandosi a conclusione e riprendendo il concetto precedentemente espresso di affidare al principio di maggioranza la verità della democrazia, il prof. Acocella si sofferma sulla possibilità di fare a meno dell’etica del fondamento. Paradossalmente c’è una compresenza dell’affermazione del principio di maggioranza e della presunzione che ogni volontà purchè sia espressa debba trovare accoglimento. Se è pericoloso affermare che soltanto una minoranza illuminata possa tracciare il percorso a nome e per conto di tutti, è altrettanto contraddittorio ritenere che tutte le minoranze siano portatrici di una propria concezione del bene. Una serie di posizioni elaborate dagli studiosi inglesi sono di quest’ordine: purchè non diano fastidio a me, alle grandi tradizioni che nascono dalla Magna Carta, il documento fondativo della costituzione inglese, possono stare sul mio territorio ma non devono intromettersi. Questa teoria è entrata in crisi con gli attacchi terroristici. Non è vero, quindi, che le comunità separandosi fra di loro e non partecipando al comune destino, si conservano in un clima di coesistenza e convivenza, perché può nascere la contrapposizione. Non possiamo mai escludere il tema originario della democrazia, secondo cui tutti partecipano con la stessa autorità e con la stessa posizione di uguaglianza al destino comune. La tesi in base alla quale ogni minoranza può portare una concezione che deve trovare accoglimento nell’ordinamento politico è la proiezione della teoria della mensa, secondo cui possono coesistere persone con interessi e usanze diverse, ma che diventa, a livello di convivenza, la celebrazione della separatezza, della incomunicabilità. Ogni democrazia, invece, dice Walzer, è una comunità di parlanti, di gente che deve scambiarsi delle idee per poi decidere quale vale per tutti e deve valere per tutti.
Elemento forte della democrazia è preoccuparsi degli effetti e delle conseguenze che le proprie azioni generano sugli altri. E’ impensabile, secondo il prof. Acocella, limitare il concetto di democrazia all’astratta considerazione che si può scendere in piazza o si può votare.
Rousseau dice che gli inglesi si illudono che votare una volta ogni tanto dia loro la libertà e scrive nel Contratto Sociale: fanno un uso della libertà allora tale che meriterebbero di perderla. La democrazia è tale solo se si basa su un forte fondamento morale che è la radice su cui si possono impiantare le leggi, i comportamenti, altrimenti è inutile meravigliarsi dell’esistenza di comportamenti delittuosi, della corruzione. Se si intende la politica un affare personale, non ci sono i presupposti per una comunicazione di tipo costruttivo.
Facendo riferimento all’affermazione di Tocqueville: se c’è una legge ingiusta, io mi appello al genere umano, il prof. Acocella affronta il tema finale del suo intervento e cioè quello dei diritti umani. I diritti umani, consegnati alla Carta dell’Onu, hanno avuto incontrastato successo sin quando si è ritenuto che fossero elencabili all’infinito e sommabili tra loro in modo indolore, perché non creavano contraddizioni o contrapposizioni. Quando, però, la loro applicazione ha cominciato a confliggere con alcune culture chiuse (si pensi agli ambiti sensibili dei diritti delle donne o dei minori), riguardo alle quali in astratto veniva affermato il principio del rispetto della differenza, ma solo negando i diritti umani per tutti, oppure con radicati principi come la sovranità nazionale assoluta (e si pensi al conflitto innescato per esempio dal dibattito sulla “ingerenza umanitaria” a proposito degli interventi internazionali contro la barbarie in Kosovo e Bosnia, e come si è riproposto per il caso birmano), il terreno della tutela dei diritti umani (universali per loro natura) è divenuto spinoso.
Il problema dei caratteri essenziali della democrazia richiamano alla responsabilità personale. Sparito il radicamento dell’etica comune, la modernità ha dovuto affidarsi all’individualismo. La modernità, infatti, nasce sulla categoria cartesiana per cui il centro resta l’individuo e la ragione intanto è riconoscibile in quanto è riconducibile all’individuo e se posso trovare un ponte con gli altri è soltanto nella ragione. Pascal dimostra l’insufficienza di tutto questo, perché sostiene che la ragione è molto di più della ragione ragionata, ma è la ragione che riguarda complessivamente la responsabilità.
Nella modernità questo problema è stato risolto con la costituzione dei movimenti, dei partiti, dei sindacati. Bisogna difendere le ragioni personali non egoisticamente ma unendosi a coloro che si riconoscono.
Per concludere, il prof. Acocella afferma che l’esaltazione del volere delle minoranze, qualunque esse siano, per cui tutte le minoranze devono avere eguale condizione nell’ordinamento, conduce a rappresentanze di nicchie potenzialmente inconciliabili tra di loro e con l’interesse generale. Con la vittoria delle parzialità minoritarie (identità di genere, razziali, etniche, culturali) verrebbe vanificato l’equilibrio creatosi tra la centralità dell’individuo e della sua responsabilità e l’organizzazione collettiva – l’associazionismo politico-sociale fino alle istituzioni rappresentative – che mira alla sintesi tra diversificati interessi nelle decisioni comuni. È intorno al bene di tutta la comunità che bisogna argomentare nella comunità partecipata, non sulla difesa del particolarismo individuale o di gruppo. La partecipazione è fasulla se non passa attraverso la ricerca di un interesse generale (orientato a valori condivisi) che comporti deprimere gli interessi forti ed esaltare quelli deboli.
In tempi di crisi palese dei partiti – orientati sempre più a trascurare un proprio progetto di società comune da proporre e confrontare con altri progetti, e sempre più ridotti a organi di registrazione elettorale di preferenze da sommare e tenere insieme a qualunque costo – occorre confermare la necessità che la partecipazione riesca responsabilmente a sublimarsi in bisogni comuni e progetti collettivi. Dal riconoscimento della tutela dei bisogni particolari l’azione personale perviene ad individuare un bisogno comune privato degli egoismi individuali per divenire rappresentanza collettiva, solidale, di eguali. Il pluralismo si arricchisce così delle responsabilità personali che, attraverso la rappresentanza sociale, integrano la rappresentanza politica, istituzionalmente rivolta (che dovrebbe essere rivolta) alla realizzazione di una società giusta.
Agata Abbamondi
Patrizia Lombardi
Ada Mancinelli